Italia grigia, senz’anima, scriveva qualche anno fa Massimo Fini. Il tempo che passa non ha certamente migliorato la situazione, anzi! Da un consumismo grasso e gretto ora, con il sopraggiungere della così detta pandemia, si è entrati di colpo in un’atmosfera tetra e addirittura macabra. Senza entrare nel merito di una situazione generale che ha connotati di isteria psicotica, appare evidente che tutto porta a spegnere ogni luce di speranza; speranza che si ritrova solo nell’improbabile cognome del ministro. Anni di esasperato consumismo hanno svuotato di ogni contenuto spirituale una società diseguale e moralmente disperata, in rotta di collisione con tutto ciò che è naturale e confortantemente umano. Non per celebrazione, bensì per istinto il mio pensiero e ricordo è tornato a Italo Falcomatà ed a quel luglio 2001, quando la Città fu percorsa dalla gelida raffica di vento che fu la notizia della sua grave, improvvisa, inattesa malattia. La costernazione generale e quella mia personale e privata di amico spense, per un attimo, la sfavillante luce dell’estate di Reggio e tutto parve grigio, freddo, come un giorno d’inverno. La primavera della nostra Città era dunque finita? All’alba era tramontato il sole, come recita il titolo di un vecchio libro sulla Cecoslovacchia invasa? Le scarse notizie sulla degenza lasciavano in apprensione me come, del resto, tutta la Città. La speranza venne però direttamente da lui: non dimenticherò mai quel pomeriggio di agosto quando qualcuno ci richiamò in strada: un’auto si era arrestata, là davanti. Grande sorpresa provocò la vista del Sindaco all’interno, i vetri chiusi, una mascherina (quella si necessaria) a coprirne in parte il viso: Italo che salutava con ampi gesti ed inviava baci. La sorpresa si mutò in un attimo di grande felicità, alla sua vista. Quella mascherina, però, non aveva nulla di simile a quelle che purtroppo oggi si vedono in giro: non bastava a nascondere il suo volto e non era sufficiente ad interrompere il flusso affettuoso di sereno coraggio che ci investì, tutti noi. Quando l’auto sparì superando il Ponte di San Pietro ci riscoprimmo rinfrancati, io e gli amici, non soltanto perché lo avevamo visto, attivo e reattivo ma soprattutto perché ci aveva trasmesso, senza parole, la serenità del suo coraggio. Il suo sorriso non si era spento né era riuscita a nasconderlo quella mascherina che ne era stata oltrepassata e perforata. Non un uomo atterrito ed in fuga ma un Uomo nella sua pienezza; non schiantato dalla paura ma conscio della propria dignità e forza che supera le cose della vita della quale, malauguratamente, anche la morte è parte. Passarono i giorni e, una domenica di fine novembre, non so come, io e il mio amico Antonio, che aveva prestato servizio nella sua scorta, riuscimmo ad andarlo a trovare, in ospedale. Certo, eravamo separati dallo spesso vetro della camera sterile ma conversammo un poco mediante il citofono, guardandoci negli occhi. Anche allora, malgrado l’avanzare della malattia, avvertimmo, quasi concreto, un coraggio sereno, che nulla aveva a che fare col fatalismo. Ce ne andammo fortificati. Egli, che aveva vissuto una vita ricca di cultura e di lotte, sapeva bene che nulla, neppure la morte fisica, avrebbe potuto intaccare la sua essenza di Uomo dignitoso. Nel tempo dei ratti in fuga e del sacro snaturato, ancora una volta Italo ci mostra il suo sereno e dignitoso coraggio. Da Lui c’è ancora da imparare.
Reggio Calabria, 11 dicembre 2020 Carmelo Santonocito
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti saranno sottoposti a moderazione